Prendersi cura di sé vuol dire conoscere se stessi,
accettarsi, dedicare tempo alla propria persona, nell’ascolto e nella ricerca
di tutte quelle sfumature che la caratterizzano e la rendono unica.
La cura di sé induce la persona a ricercare l’autonomia,
l’indipendenza sotto tutti i punti di vista, per sentirsi libera di essere se
stessa.
E mediante la cura riusciamo a dare piena forma alla
nostra vita, sia personale che sociale: figli, genitori, marito, moglie, amici
e parenti.
Crescere un figlio, assistere un genitore anziano, occuparsi
quotidianamente della casa, sembrano essere mansioni naturali appartenenti in
modo quasi esclusivo alla donna. Ma può essere considerato solo un “compito
naturale”, oppure il prendersi cura implica qualcosa di più, tanto da essere intesa
quasi come “virtù” vera e propria?
Il prendersi cura è una virtù che dev’essere
necessariamente appresa e non può considerarsi un compito naturale e innato,
altrimenti come si spiegherebbero tutti i casi di violenza e di omicidio
all’interno della famiglia?
Nel mito di Medea, quest’ultima uccide i figli per dare
una punizione esemplare a Giasone, suo sposo, reo di essersi innamorato di
un’altra donna. Medea uccide la prole per attuare una vendetta verso il marito,
e quindi infondere in lui la sua stessa sofferenza, per non sentirsi più amata
e non ricevere più le attenzioni di un tempo.
Si potrebbe dunque affermare che la mancanza di cura e di
amore siano il motore scatenante di tanta violenza.
L’amor proprio aiuta la persona, la donna in modo
particolare, a vincere le paure e i sensi di colpa che spesso si provano,
quando si è occupati nei tradizionali compiti di cura degli altri.
Conservare per tutto l’arco della vita un atteggiamento positivo
di cura verso se stessi, può determinare una consapevolezza diversa anche
dell’altro con cui ci relazioniamo e con cui condividiamo la vita.
Se impariamo a prenderci davvero cura di noi stessi,
soltanto allora potremmo imparare ad occuparci della vita degli altri.
Un caro saluto
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